Questo il titolo dello studio pubblicato sul “The New England Journal of Medicine” nel 2021, che ha coinvolto attivamente il gruppo di Anestesiologia e Terapia Intensiva dell’Ospedale Policlinico San Martino, diretto dal professor Paolo Pelosi.
L’arresto cardiaco è una patologia frequente (in Italia si stimano circa 1 caso/anno ogni 1000 abitanti), gravata da elevata mortalità (60.000 pazienti deceduti/anno e quasi 100.000 deceduti nel 2020) e caratterizzata da un peggioramento della qualità di vita nel 50% dei pazienti sopravvissuti.
In precedenti lavori effettuati negli anni 2000 (“Hypothermia after Cardiac Arrest Study Group. Mild therapeutic hypothermia to improve the neurologic outcome after cardiac arrest. N Engl J Med 2002;346: 549-56” e “Treatment of comatose survivors of out of-hospital cardiac arrest with induced hypothermia. N Engl J Med 2002; 346: 557-63”), era stata riportata la possibile efficacia dell’ipotermia a 32-33 °C quale tecnica per migliorare la prognosi clinica sia a breve che a lungo termine in quei pazienti che avevano subito un arresto cardiaco extra-ospedaliero. Tuttavia, tali studi avevano arruolato un numero limitato di soggetti.
Sebbene infatti le linee guida raccomandino fortemente una gestione mirata della temperatura con un obiettivo costante tra 32°C e 36°C, le stesse affermano anche che l’evidenza complessiva è di scarsa certezza.
Per questi motivi è stato pianificato e condotto un nuovo studio, “Hypothermia versus Normothermia after Out-of-Hospital Cardiac Arrest”, che ha incluso 1.900 pazienti dopo arresto cardiaco extra-ospedaliero, sottoposti in modo randomizzato, a ipotermia (temperatura di 33 °C) o a normotermia (evitando la febbre con temperatura superiore ai 37.8 °C, sia per mezzo di metodi farmacologici che meccanici).
Tra i principali risultati è emerso che:
- A 6 mesi dall’arresto cardiaco, la mortalità è risultata essere del 50% dei pazienti e le capacità funzionali limitate nel 50% dei pazienti, senza differenze significative tra i due gruppi;
- Non è stata evidenziata alcuna differenza di prognosi a breve e lungo termine tra i due gruppi;
- Le aritmie ed alterazioni cardiovascolari sono state più frequenti nel gruppo trattato con ipotermia rispetto a quello trattato con normotermia.
Lo studio ha così permesso di dimostrare che l’uso dell’ipotermia dopo un arresto cardiaco extra-ospedaliero non solo non riduce la mortalità, ma è addirittura associato ad un maggior rischio di complicanze severe e all’uso estensivo di mezzi meccanici per ridurre la temperatura.
In conclusione, nei pazienti dopo arresto cardiaco intra ed extra-ospedaliero, si suggerisce di effettuare un attento monitoraggio personalizzato della temperatura corporea, evitando l’insorgenza di febbre e di intervenire con mezzi farmacologici e/o meccanici solo se necessario. Tali risultati modificano le attuali raccomandazioni terapeutiche per tali pazienti, proponendo di mantenere la normotermia al fine di ridurre la frequenza delle complicanze, dei costi e del carico di lavoro sia medico che infermieristico in terapia intensiva.
Per approfondimenti: www.nejm.org/doi/