Evidenziato il meccanismo con cui uno dei farmaci utilizzati contro la Sclerosi Multipla recidivante-remittente agisce su alcune cellule immunitarie, i linfociti T e B. I risultati di questo studio aprono la strada per una terapia sempre più mirata e personalizzata sulla base dell’efficienza di risposta delle cellule.

La Sclerosi Multipla è una malattia neurodegenerativa autoimmune, cioè caratterizzata da cellule immunitarie, in particolare linfociti T e B, che inspiegabilmente scatenano una tempesta infiammatoria contro alcune componenti del sistema nervoso, deteriorandolo nel tempo.
 
In Italia viene colpita una persona su 500, con un’incidenza di tre volte maggiore nelle donne. La forma diagnosticata più frequentemente è la Sclerosi Multipla con decorso recidivante-remittente, in cui si alternano periodi con episodi acuti, le ricadute o recidive, a periodi privi di sintomi, le remissioni.
 
Al momento non esiste una cura per la Sclerosi Multipla, ma esistono numerose terapie, definite immunomodulanti, che regolano cioè l’attività del sistema immunitario per prevenire le ricadute e rallentare la progressione della malattia.
 
La Cladribina è uno dei farmaci immunomodulanti utilizzati, soprattutto per contrastare le forme recidivanti-remittenti di Sclerosi Multipla. Una volta somministrata, viene trasformata in una molecola tossica che interferisce con la riproduzione dei linfociti, ma le sottopopolazioni di linfociti rispondono in modo differente al trattamento e nel tempo queste, in parte, si ricostituiscono, anche se con proporzioni diverse. Come mai?
 
La spiegazione potrebbe arrivare da uno studio condotto da Federico Carlini, un ricercatore dell’IRCCS Ospedale Policlinico San Martino e dell’Università di Genova, che ha osservato una diversa risposta al trattamento da parte di linfociti T e B, che potrebbe dipendere dal tipo di linfocita, dallo “stadio della vita” e dalla funzione svolta dalla cellula in quel momento. 
 
<<Il meccanismo di conversione della Cladribina è possibile grazie all’azione di una proteina, la Desossicitidina Chinasi (dCK), che ha il compito di trasformare il farmaco in una sostanza tossica per le cellule, e in particolare per i linfociti, determinandone la morte – spiega Federico Carlini – I risultati del nostro studio hanno dimostrato che è la stessa Cladribina a indurre le cellule ad aumentare la produzione della dCK nei linfociti, portandoli al suicidio, anche se nel tempo le sottopopolazioni di cellule immunitarie si rigenerano.
 
In particolare, abbiamo osservato che alcune cellule sono meno suscettibili all’azione della Cladribina, e non solo per la quantità di dCK prodotta, ma anche per la sua minore capacità di trasformare il farmaco in sostanza tossica. Questo si verifica soprattutto nelle cellule inattive, cioè quelle popolazioni di linfociti che non sono direttamente coinvolte nel processo infiammatorio tipico della Sclerosi Multipla.
 
Misurare quindi l’attività di dCK è fondamentale per determinare l’efficienza del trattamento nelle sottopopolazioni di linfociti e valutare i benefici di questa terapia nei pazienti>>.
 
Approfondire i meccanismi di risposta dei linfociti T e B al trattamento permetterà in futuro di ottimizzare le terapie per i pazienti con sclerosi multipla e rallentare o inibire la capacità delle cellule di riattivare l’azione autoimmunitaria contro il sistema nervoso.